Corte di Cassazione S.U. n. 15889/2022: Nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi, costituita dopo il matrimonio e ricadente nella cd. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all’altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data:

Il caso in esame verte sull  discussione conseguente la cessazione degli effetti civili di un matrimonio concordatario circa la spettanza di beni strumentali all’esercizio di un’attività imprenditoriale, facente capo ad una società, della quale i coniugi erano titolari di quote pari al 55% e 45%; in particolare, viene discusso se l’acquisto deve essere  avvenuto in regime di comunione legale, oppure al di fuori di questa, considerando, cioè, i beni come necessari per l'esercizio della professione del solo coniuge amministratore. In tale ultimo caso, allo scioglimento della comunione legale, tali beni dovrebbero cadere nella comunione de residuo.
Secondo le Sezioni Unite accertare se si tratti di un diritto reale ovvero di un diritto di credito diviene rilevante e influisce non solo per la posizione dei coniugi, ma anche nei rapporti con i terzi e soprattutto con i creditori del coniuge imprenditore, in particolare nel caso in cui la situazione debitoria abbia causato l’insorgenza di una procedura concorsuale.
Viene rilevato che la dottrina che sostiene la natura reale del diritto del coniuge non imprenditore sui beni ricadenti nel novero della cd. comunione de residuo trae principale argomento dalla lettera della legge che, per le ipotesi di cui all’art. 177 lett. a) e b), c.c. prevede che i beni interessati “costituiscono oggetto della comunione”, ed all’art. 178 c.c., (quanto all’azienda gestita solo da un coniuge), prevede che i beni destinati all’esercizio dell’impresa (se costituita dopo il matrimonio) e gli incrementi dell’azienda (costituita anche precedentemente) “si considerano oggetto della comunione”, sempre che sussistano ancora al momento dello scioglimento della comunione legale. La scelta semantica del legislatore, per questa tesi, risulterebbe poi maggiormente consona alla ratio dell’istituto, poiché se si giustifica un sacrificio per l’interesse del coniuge titolare dei beni de quibus nella permanenza del regime della comunione legale, al fine di assicurare la piena disponibilità dei redditi prodotti e degli incrementi, nonché la libertà nella gestione dei beni aziendali ex art. 178 c.c., tale sacrificio non può prolungarsi una volta che venga meno il regime della comunione legale. Conseguenza di tale impostazione è che i beni in questione, senza mai transitare nell’ambito di quelli sottoposti al regime della comunione legale, ricadono direttamente in comunione ordinaria. E il Collegio evidenzia pure che questa soluzione sarebbe  incoraggiata, sempre sul piano letterale, dal rilievo che l’art. 192 c.c., pur disciplinando i rimborsi e le restituzioni da effettuare tra i coniugi al finire del regime legale patrimoniale della famiglia, niente prevede quanto ai beni oggetto della comunione de residuo, dal che dovrebbe trarsi la conseguenza dell’esclusione dell’esistenza di un diritto di credito, quale effetto dell’attualizzazione del diritto del coniuge sui beni oggetto della comunione de residuo. In tal modo i beni in esame, da ritenersi beni personali “manente communione” legale, divengono automaticamente beni comuni, così fornendo maggiori garanzie anche al coniuge, che, divenendone comproprietario, eviterebbe il concorso con i creditori dell’altro coniuge, che invece subirebbe, ove si accedesse alla tesi contrapposta.
Dall’altro lato, il Collegio riferisce la posizione dei sostenitori della tesi del diritto di credito, da commisurare alla metà del netto patrimoniale attivo dell’impresa o degli incrementi di impresa maturati fino al momento dello scioglimento della comunione legale, ma depurati di ogni passività aziendale: secondo questi, non sarebbe invalicabile la lettera della legge, la quale proprio per l’utilizzo del verbo “considerare” indica come ben potrebbe sottendere una non piena equiparazione del regime di tali beni a quello disposto invece per quelli immediatamente oggetto della comunione legale. Per tale tesi, sarebbe priva di ragionevolezza  e comprensibilità una soluzione che imponesse l’insorgere di una comunione su determinati beni proprio al momento del disfacimento della comunione legale: la caduta in comunione dell’azienda causerebbe anche il subentro del coniuge non imprenditore nella responsabilità per i debiti contratti in precedenza, senza che possa opporsi il limite del valore dei beni in comunione de residuo. Il Collegio evidenzia anche  un altro argomento a favore della natura obbligatoria, ovvero quello che complessivamente valorizza le esigenze dell’impresa, sia dal lato del coniuge imprenditore che da quello dei creditori dell’impresa: il venir meno del regime della comunione legale, pur determinando l’insorgere della comunione de residuo, non implica di per sé il dissolvimento dell’impresa individuale, che quindi ben potrebbe continuare ad essere operativa anche per il periodo successivo.
La tesi della natura obbligatoria, poi, considera anche le esigenze di tutela dei creditori dell’impresa, i quali hanno fatto affidamento, anche in vista della concessione del credito, sulla consistenza dell’azienda ritenuta di proprietà esclusiva dell’imprenditore e che, appena intervenuto lo scioglimento della comunione legale, vedrebbero la garanzia patrimoniale del loro credito ridotta del 50%, in ragione della insorgenza del diritto di comproprietà in favore del coniuge non imprenditore.  Analoga difficoltà si porrebbe anche nel caso in cui lo scioglimento della comunione legale sia determinato dal fallimento del coniuge imprenditore, posto che in tal caso, per effetto della nascita della comunione, nell’attivo fallimentare potrebbe essere inserito solo il 50 % dell’azienda, essendo evidentemente compromessa o fortemente impedita ogni possibilità di permettere la prosecuzione dell’attività in pendenza della procedura, dovendo le scelte da assumere in quest’ultima fare i conti con la concorrente contitolarità e gestione spettante al coniuge non imprenditore. Le Sezioni Unite danno conto, inoltre, di una soluzione intermedia adottata da altra parte della dottrina, che ritiene che la risposta vari a seconda del bene cui rapportare l’istituto, ovvero distinguendo a seconda della diversa causa di scioglimento della comunione legale: la natura reale del diritto andrebbe affermata solo per i beni ex artt. 177 b) e c) c.c. e 178 c.c., solo se lo scioglimento della comunione legale avviene perché l'imprenditore è venuto a mancare, definitivamente o provvisoriamente (morte, anche presunta, assenza), dovendosi invece aderire alla tesi del diritto di credito per tutte le altre ipotesi. Il Collegio, poi, prosegue con una disamina della giurisprudenza, che altrettanto denota analoga differenza di vedute, oscillando fra natura reale e natura creditizia del diritto in esame.
Per il Collegio, affinché possa insorgere il diritto dell'altro coniuge su detti beni è però necessario che gli stessi siano effettivamente e concretamente esistenti nel patrimonio dei coniugi al momento dello scioglimento, di guisa che l’instaurazione di una situazione di comunione de residuo è configurata nel sistema della riforma come evento incerto dell’an, in quanto subordinato alla circostanza della sussistenza del residuum al momento dello scioglimento della comunione legale, ed incerto altresì nel quantum, poiché la contitolarità riguarderebbe esclusivamente quella parte di beni che residuino alla cessazione del regime patrimoniale legale. Il Collegio osserva che dal raffronto tra la previsione di cui all’art. 178 e quella di cui all’art. 177 co. 1 lett. d) e dell’ultimo comma dello stesso art. 177, si ricava che l’elemento risolutivo per distinguere, quanto all’azienda, tra beni destinati a ricadere immediatamente in comunione e quelli invece riservati alla comunione de residuo, è rappresentato dalla gestione comune ovvero individuale dell’azienda e, inoltre, che l’individuazione dei beni oggetto della comunione de residuo testimonia lo sforzo del legislatore di raggiungere un auspicato bilanciamento tra il principio solidaristico, che dovrebbe informare la vita coniugale (art. 29 Cost.), da un lato, e la tutela della proprietà privata e della remunerazione del lavoro, dall’altro (artt. 35, 41, 42 Cost.).
Per le Sezioni Unite non può ignorarsi l’esigenza di assicurare il coordinamento tra le novità introdotte dalla riforma del diritto di famiglia ed il preesistente impianto codicistico che nelle sue linee fondamentali è volto a privilegiare l’autonoma e libera disponibilità delle risorse, nonché il principio della circolazione dei valori ed il mantenimento dei livelli di produttività, che non possono patire ostacoli eccessivi a causa della scelta in favore del regime della comunione legale.
il Collegio osserva come le esigenze solidaristiche familiari siano state in parte considerate recessive a fronte dell’esigenza di tutelare il soddisfacimento di altri concorrenti diritti di pari dignità costituzionale e come ciò induca a prediligere la tesi della natura creditizia del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo, tesi che, senza vanificare in termini patrimoniali l’aspettativa vantata dal coniuge sui beni in oggetto, garantisce la permanenza della disponibilità dei frutti e dei proventi e dell’autonomia gestionale, quanto all’impresa, in capo all’altro coniuge, nelle ipotesi previste dall’art. 178 c.c., evitando un pregiudizio altresì per le ragioni dei creditori, permettendo in tal modo la sopravvivenza dell’impresa, e senza che le vicende dei coniugi possano avere una diretta rilevanza sul destino della stessa.
Pertanto le Sezioni Unite affermano a natura creditizia del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo, riconoscendo un diritto di compartecipazione sul piano creditizio, pari alla metà dell’ammontare del denaro o dei frutti oggetto di comunione de residuo, ossia del controvalore dei beni aziendali e degli eventuali incrementi, al netto delle passività.


Scarica la Sentenza n. 15889/2022 della Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili

14 novembre 2022



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